di Anna Alfieri
Forse non sarò breve, probabilmente non sarò chiara e sicuramente non sarò credibile perché quella che sto per raccontare è la complicata storia di un nostro dimenticato compaesano, Valerio Ciaffi detto Il Principe, che, nato a Tarquinia nel 1910 da Matilde Ciaffi e da padre ignoto, per tutta la vita cercò invano di dimostrare di essere figlio di un nobile russo.
“Mio padre – non si stancò mai di raccontare – apparteneva alla famiglia dei Romanov e, da parte materna, aveva nelle vene anche il sangue armeno-kirghiso dei Ben Ali Khan. Perciò – insisteva Valerio – io sono in realtà Dmitri Kirillovich, ultimo erede dello Zar. Inoltre sono il fratello maggiore di Muammar Gheddafi ed anche di Anna Magnani”.
A questo punto qualcuno potrebbe domandarmi come mai, con il caldo che fa e con tutto quello che sta accadendo nel mondo, io mi metta a raccontare cose tanto stravaganti. Il fatto è che da qualche giorno sono letteralmente ossessionata dalla presenza sulla mia scrivania di uno strano articolo che suscita in me un’attrazione fatale alla quale non riesco a sottrarmi. Il titolo dell’articolo è il seguente:
IL GIALLO D’AGOSTO”
di Livio Spinelli“GHE_TAFFI”
UN ROMPICAPO TRA ITALIA, RUSSIA E LA 4ª SPONDA DEL MEDITERRANEOUn filo invisibile lega lo Zar, la rivoluzione russa, la guerra russo-giapponese, alcune famiglie di Tarquinia, Anna Magnani e il Leader libico
Secondo questo articolo, tutto iniziò nel 1904, quando un principe appartenente alla famiglia imperiale dei Romanov, dopo aver combattuto a Port Arthur nel conflitto russo-nipponico, venne a ritemprare le sue forze a Roma presso l’Hotel de Russie in via del Babuino.
Un destino bizzarro volle che il proprietario dell’albergo, l’enigmatico Signor Silenzi, fosse anche l’amministratore di alcune imprecisate terre tarquiniesi che, con il consenso del Vaticano (!?), appartenevano segretamente agli Zar. Per questo spesso invitava l’ospite a visitare i suoi russi possedimenti di Corneto e proprio in una di queste circostanze il nobiluomo si innamorò di Matilde Ciaffi che poi sposò all’Abbazia di Farfa. Dall’unione nacque Valerio che, però, per oscure ragioni dinastiche, invece di chiamarsi Dmitri Kirillovich ed assumere il nobile cognome che gli competeva, finì col diventare, assai banalmente, un Ciaffi qualsiasi. In compenso, i buoni cornetani lo soprannominarono subito Il Principe.
E Gheddafi? Di Gheddafi parlerò tra poco.
Nel 1914 la storia d’amore tra i genitori di Valerio finì e il principe russo, con regale disinvoltura, lasciò la moglie e il figlio in Italia e tornò serenamente a San Pietroburgo dove visse felice e contento fino al 1918. Anno fatale, rivoluzionario, bolscevico e, per i Romanov, assai nefasto. Perciò il Nostro, ricordandosi improvvisamente di avere sangue kirghiso nelle vene, assunse il nome materno dei Ben Ali Khan e si convertì all’Islam Ismaelita. Poi, più mimetizzato di Lawrence d’Arabia, si rifugiò prima in Egitto e poi in Cirenaica, dove l’Emiro del luogo, il futuro re Idris di Libia, lo nominò comandante di tutta la Senussia a guardia del Sahara con la Qabila dei Drusi.
Trascorsero molti anni e Romanov/Ben Alì, diventato in tutto e per tutto un autentico beduino, ormai sessantenne si unì ad una giovane nomade che nel 1942, in una tenda di pelle di capra, gli regalò un vivace bambino scuretto e riccioluto – il futuro Rais di Cirenaica e Tripolitania – che chiamò Muammar. Il quale – essendo a tutti gli effetti il figlio del vecchio Romanov che a Tarquinia aveva sposato Matilde Ciaffi, – era, ovviamente, il fratello, da parte paterna, del nostro compaesano Valerio. Come Valerio stesso voleva dimostrare.
Ma questa intricatissima storia non finisce qui, perché Muammar venne adottato da una famiglia di coloni italiani che, sempre secondo Valerio, provenivano – udite udite! – da Tarquinia e si chiamavano Taffi. Da qui il cognome quasi cornetano di Ghe-taffi, cioè Gheddafi.
A questa esagerata, strabiliante e insostenibile notizia io, sopraffatta dalla sorpresa, stravolta dall’incredulità e paralizzata da un improvviso offuscamento delle mie capacità narrative, mi arrendo. E rinuncio perfino a raccontare come mai Anna Magnani – presunta sorella di Muammar e de nostro Valerio – fosse figlia, anche lei, del principe russo armeno kirghiso beduino ortodosso islamico ismaelita e anche un po’ tarquiniese, del quale ho già parlato con troppa disinvoltura.
In compenso, invidio Livio Spinelli, autorevole studioso, perché in un lontano giorno d’inverno ebbe la ventura di intervistare, in un caffè del lungomare di Civitavecchia, il vero Valerio Ciaffi che gli apparve come un uomo “modesto, magro, timido, un po’ avanti negli anni, ma con gli occhi svegli” . E lo ringrazio di cuore perché, pur essendo lo storico severo che conosciamo, da quella surreale intervista non supportata da alcun documento, trasse ugualmente il fascinoso racconto che ora tanto mi intriga. Un bel racconto che il Professore mi ha fatto recapitare tramite uno stimatissimo amico comune, con l’augurio sorridente e un po’ disincantato, di “trovare il bandolo della matassa”.
E se la matassa esistesse davvero? E se qualcuno di noi ne conoscesse il bandolo?
Valerio Ciaffi, detto il Principe, morì a Civitavecchia negli anni ’90, in estrema povertà.