di Stefano Tienforti
Approfittando dell’ospitalità di una delegazione del Comune di Tarquinia in visita alle cittadine colpite dal terremoto dello scorso 24 agosto, nella mattinata di ieri Fabrizio Ercolani ed io ci siamo recati ad Amatrice, uno dei luoghi più colpiti dal sisma.
Una visita che – nata per voler giornalisticamente testimoniare cosa si sta vivendo in questi giorni in quelle zone e raccontare dell’opera svolta da volontari, anche tarquiniesi, a sostegno delle popolazioni – è ben presto diventata un’esperienza durissima, intensa, a contatto con un dramma di cui video e foto non riescono a trasmettere appieno l’enormità, la profondità, l’irrimediabilità.
Raggiungere Amatrice è stato impossibile: lungo le vie d’accesso Vigili del fuoco e militari erano all’opera per porre in sicurezza gli edifici pericolanti. Abbiamo, però, visto l’ospedale della cittadina, completamente danneggiato dalle crepe, e spostandoci per le zone limitrofe case crollate, chiese semi distrutte, tende improvvisate nei giardini delle abitazioni. Poi siamo giunti a Saletta, frazione di Amatrice dove sorge il campo della Regione Lazio il cui responsabile è Alessandro Sacripanti, dell’AEOPC Tarquinia, e dove stanno operando altri volontari non solo tarquiniesi ma di molte zone della Provincia di Viterbo. E abbiamo capito che ciò che sino a pochi istanti prima ci sembrava terribile, lo era – incredibilmente – ancor meno di quanto trovato in quel borgo di 23 abitanti.
Saletta, infatti, è una cittadina che non c’è più, completamente travolta, distrutta, cancellata non solo nelle strutture e nelle vite di chi non è sopravvissuto, ma nella realtà quotidiana di chi è rimasto. Appena arrivati in auto abbiamo raggiunto una piazza attorno alla quale non è rimasta in piedi una sola abitazione: soltanto la fontana, al centro, è esattamente come prima delle scosse. Poi, giunti al campo, siamo stati accolti dai volontari che, elmetto in testa, ci hanno mostrato un’altra area della cittadina: il racconto di quanto visto è affidato al video che trovate sopra ed alla galleria di foto in basso. Le sensazioni, invece, sono impossibili da filmare o raccontare. Così come è difficile trovare le parole di fronte agli sguardi degli abitanti che, nel giro di pochi minuti, hanno perso tutto e guardano al futuro frastornati e con una paura che, ormai, è maggiore anche di quella con cui vivono le nuove scosse.
A rendere l’atmosfera vivibile, in questo scenario, è l’opera dei volontari: sia quella materiale – creazione dei campi, ospitalità, logistica, sostentamento – che quella umana, con la carica che riescono a trasmettere ai rifugiati nelle tende allestite in quello che, prima dell’emergenza, era un campo da gioco.
“Inizialmente questa doveva essere una postazione temporanea – racconta Sacripanti – per depositare materiali, strumenti e attrezzature. Poi, dopo le prime nottate qui, abbiamo scoperto che c’erano persone che dormivano in baracche di lamiera, altre addirittura in strada: per cui abbiamo allestito le prime tende”. Ora il campo è casa per circa trenta persone: c’è una mensa ed una tenda che fa da punto di ritrovo, dove la sera si radunano volontari ed abitanti per condividere momenti di – pare incredibile a dirlo in quello scenario – serenità. “Presto arriveranno anche le docce – spiega ancora Sacripanti (e forse, mentre leggete, sono già giunte al campo, ndr) – ma intanto i volontari, con la collaborazione dei residenti, hanno già provveduto ad improvvisare una soluzione rudimentale. Perché c’è una regola importante: il campo è di tutti, e lavorano tutti”. Anche i ragazzi più giovani tra gli abitanti di Saletta, pronti a mettersi a disposizione perché tutto funzioni al meglio.
E da qualche giorno – non appena terminate le operazioni di salvataggio o, subito dopo, quelle di recupero dei corpi – il campo ha anche un simbolo: la campana della chiesa, recuperata tra i detriti, è stata disposta proprio al centro. Simbolo che indica qualcosa da cui ripartire, per un nucleo di abitanti che, intanto, mostra come può la propria riconoscenza ai volontari. “Il problema non è più adesso – spiegano riferendosi ai soccorsi – loro hanno fatto tantissimo per noi, con efficienza, umanità. Il problema è per quando su queste città si spegneranno i riflettori”. Non abbiamo saputo dire altro se non impegnarci a tornare: e questo, assieme alla visita, è bastato a farci prendere così tanti ringraziamenti da farci capire quanto le speranze di queste persone, oggi che non hanno praticamente più sulla, si rivolgano agli altri, perché non li lascino soli.