di Luigi De Pascalis
Mi è sempre più difficile trovare le parole giuste per salutare gli amici che se ne vanno, chi dopo una lunga malattia, chi all’improvviso, ma ci provo nonostante gli occhi lucidi e il cuore pesante.
Oggi è una giornata di vento feroce.
Oggi questo selvaggio spazza le strade e il mare facendo vorticare pensieri e dolori in giri senza senso, come foglie strappate dai rami in un malinconico autunno.
Invece è primavera. È primavera pure se Vita e Morte danzano come sempre attorno e noi.
Oggi, se Brian fosse ancora vivo come lo era ieri, sarebbe salito in macchina, l’avrebbe parcheggiata al Porticciolo e si sarebbe incamminato sulla strada delle saline per godersi la luce incerta e gli umori bizzarri di questa giornata. Avrebbe camminato lungo la strada, costeggiando la rete che la divide dalla riserva naturale, e avrebbe cominciato a rimuginare su come rendere questa strana atmosfera sull’ennesima tela dedicata al territorio tarquiniese e ai suoi incanti segreti.
Le saline di Tarquinia sono state per Brian Mobbs ciò che è stato il giardino di Giverny per Claude Monet: il tema di una vita, il centro di una riflessione infinita, il segno di un amore incondizionato. E Tarquinia gliene dovrebbe essere grata come si dovrebbe essere sempre grati a un amico venuto da lontano per condividere e perpetuare il nostro mondo, anzi per conservare il suo ricordo in noi. Perché una cosa è chiara: negli ultimi venti anni almeno, Brian ha dipinto più ricordi che paesaggi, cercandone le tracce sempre più tenui in ciò che a volte, ormai, riusciva a vedere solo lui.
La Maremma, con i suoi butteri, le greggi, le mandrie, gli acquitrini e i grandi spazi solitari erano già al tramonto quando lui ci arrivò, cinquant’anni fa, con in tasca le pagine che aveva dedicato a Tarquinia David Herbert Lawrence, l’autore di Figlie e amanti (1913) e di L’amante di Lady Chatterley (1928). Eppure quel mondo l’abbagliò e lo travolse, volle farsene testimone e oggi c’è solo nelle sue tele. Tele che dovrebbero essere conservate da chi le possiede come traccia preziosa da mostrare ai nipoti dicendo loro con orgoglio e nostalgia: “Ecco, questo avevamo e l’abbiamo lasciato svanire”.
Strano, il destino di certi uomini. Vengono da lontano – da un’altra cultura, da un’altra lingua – si fermano in un posto, si guardano attorno e vedono di quella terra e della sua gente ciò che chi ci è nato non vede già più. Può racchiudersi in questo un destino? Io dico di sì.
Dico che Brian ha scelto consapevolmente di essere l’ultimo cantore di una Maremma che oggi non esiste più, avvilita da autostrade, centrali elettriche, fiumi contaminati, costruzioni insensate fin sulla riva del mare.
Lui, il gentiluomo inglese dall’accento inconfondibile e dal cuore che non conosceva invidia, disonestà o rancore, è stato l’ultimo testimone delle radici essiccate di questo territorio. E se n’è andato ieri, per sempre, lasciandoci soli in balia di mutazioni forse irreversibili; ma testimone, ancora, della nostra impotente e vana nostalgia.
Se le autorità cittadine volessero fargli omaggio e rendergli più lieve il viaggio verso la sua immaginaria Maremma, dovrebbero trovare il modo di farlo riposare in un angolo delle Saline, in vista di un tramonto sul mare; e dedicargli laggiù un piccolo museo, con le sue opere più belle. Che ci pensino. Gli amici di Brian, e sono tanti, gliene sarebbero grati.