di Anna Alfieri
Il Museo Archeologico Etrusco di Tarquinia non si chiama affatto etrusco e nemmeno archeologico. Si chiama – come è scritto con semplicità e chiarezza nell’epigrafe posta sulla sua facciata – “Museo Nazionale Tarquiniense”. Quasi un ossimoro, strana parola che si riferisce all’accostamento di due vocaboli di senso contrario in contrasto tra loro. In questo caso l’ossimoro consiste nel fatto che il nostro grande Museo, custode di reperti storici ed artistici di importanza mondiale, viene definito Nazionale, ma contemporaneamente anche Tarquiniense, quasi fosse – e questa è l’antitesi – di dimensioni civiche modeste se non addirittura paesane.
Eppure questa definizione, voluta con forza nel 1916 dall’archeologo Giuseppe Cultrera della Reale Soprintendenza alle Antichità di quel tempo, è esatta e appropriata. Perché essa conferma che tutto quanto di intrigante, di suggestivo e soprattutto di culturalmente prezioso il nostro Museo contiene, tutto, ma proprio tutto, proviene esclusivamente da Tarquinia, dal suo territorio e dalla sua storia. A cominciare dal quattrocentesco Palazzo Vitelleschi che ogni meraviglia raccoglie e che, nella sua struttura architettonica, da solo racconta come in un libro di pietra, l’intero passato medievale della nostra città che prima si chiamava Corneto. Un libro in cui la torre Fani e le arcate possenti della fiancata che dà in via Mazzini testimoniano il Romanico e le trifore ricamate che si affacciano su piazza Cavour illustrano il Gotico, mentre il portale di marmo con lo stemma cardinalizio e il soprastante loggiato che si apre sul mare accennano al Rinascimento ormai incipiente.
Nell’ala più ombrosa e privata di questa dimora, Giovanni Vitelleschi incastonò una cappella e un’anticappella che fungeva da studiolo, entrambe affrescate. Le pitture dell’anticappella raccontano la storia antica di Lucrezia che, moglie romana dell’etrusco Tarquinio Collatino, si uccise dopo essere stata violentata da Sesto Tarquinio, figlio del Superbo. Una vicenda crudele che, come scrive Tito Livio, offese e indignò i Romani e provocò la cacciata dei Tarquini dall’Urbe, la caduta della monarchia e la nascita della repubblica in Roma.
Nel commissionare questo ciclo pittorico, il nostro Cardinale intendeva esaltare soltanto le virtù della pudicizia e dell’onestà coniugale simboleggiate da Lucrezia violata e suicida. Ciò nonostante, come folgorato dal Genius Loci tarquiniense che già allora magicamente invadeva ogni spazio del suo palazzo ancora in costruzione, e come spinto dalla sua suggestiva sensitività territoriale, volle per primo – e dico con emozione ‘per primo in Corneto’ – raffigurare proprio nello studiolo delle sue meditazioni l’immagine di due etruschi Tarquini, il Collatino e il Sesto, la cui famiglia proveniva dalla mitica Tarchna della quale, in paese, si era perso da tempo ogni memoria. Eppure quella magica Tarchna da secoli dormiva silenziosamente sepolta sotto uno strato di terra dorata costellata qua e là da tombe etrusche, scambiate per piccole e strane ‘grotte pinte’ nelle quali i contadini un po’ frastornati qualche volta riparavano se stessi e il loro bestiame. Insomma Tarquinia giaceva proprio nel gran territorio cornetano dove il Cardinale, che era ambizioso e guerriero, forse sognava di fondare la sua Signoria.
Solo nel Settecento, Tarchna-Tarquinia riaprì i suoi tesori e rivelò i suoi segreti nascosti. Poi – quando dai suoi sepolcri dimenticati emersero all’improvviso figure eleganti e gioiose piene di colori e di vita, ceramiche decorate e gioielli di fattura strana e finissima, quando l’opaca cultura del tempo venne scossa fin dalle sue fondamenta e l’archeologia si trasformò in passione, avventura e romanzo, – a Corneto fu tutto un accorrere di rudi frugatori di tombe, di furbi mercanti antiquari, di avventurieri, di viaggiatori curiosi, di letterati sensibili e di studiosi entusiasti. Accadde così che, piano piano, la ruvida e turrita città degli orgogliosi cornetani finì col chiamarsi Tarquinia e, che col tempo, al Palazzo che avrebbe potuto diventare il cuore pulsante di una Signoria Vitelleschiana, venne attribuito l’inatteso aggettivo di ‘tarquiniense’. A buona ragione però.
‘Tarquiniense’ a buona ragione, perché ora nelle sue scuderie al piano terreno i severi personaggi di pietra appartenuti alle grandi famiglie etrusche dei Camna, dei Pulena, degli Apatri, e dei Partunus, adagiati come vivi sui loro pesanti sarcofagi ben decorati, si scambiano ancora misteriosi sguardi d’intesa e forse, di notte, si dicono strane parole. E perché nelle grandi sale in cui, durante il Rinascimento, si aggirarono capitani di ventura, pontefici e dame, ora si affollano i visitatori intenti ad ammirare centinaia e centinaia di reperti archeologici. Da quelli Villanoviani che risalgono ai tempi in cui gli Etruschi ancora non si chiamavano Etruschi ai trionfali capolavori provenienti da Corinto, dall’Attica, dall’Egitto e dalla Fenicia, importati a caro prezzo ed esibiti nei loro palazzi dai magnati dell’antica Tarquinia e poi da essi gelosamente conservati nei propri sepolcri. Dalle collezioni di ceramiche prodotte nei laboratori di Tarchna, ora ordinatamente accatastate nei depositi sotterranei, ai buccheri, le armi, le monete, i gioielli, gli specchi, i balsamari, i lacrimatoi, le suppellettili e gli oggetti votivi. Dai grandi Cavalli Alati di terracotta che sembrano pronti a spiccare il volo alle pitture tombali asportate dalle necropoli che non sono solo nostre, ma anche Patrimonio dell’intera Umanità.
Del resto, i tramonti rossi e viola che un tempo perfino i Borgia ammirarono dai loggiati vitelleschiani sono, anch’essi, “Tarquiniensi”. Perché il mare in cui ogni sera il sole scompare davanti ai nostri occhi si chiama Tirreno in ricordo dell’eroe Tirreno, fratello di Tarchon che, in un magico giorno indicato dagli dei, fondò Tarchna-Tarquinia dalla quale, per noi, tutto nacque. Perfino questo mio raccontino un po’ strampalato.