“Non è la natura ad avere paura del vuoto, ma noi uomini”, afferma Blaise Pascal in uno dei suoi più bei Pensieri. Queste parole non possono non farci riflettere. Abituati come siamo a vivere nel pieno, ossessionati dal riempire le nostre giornate anche del superfluo, con la costante ansia che il vuoto possa accompagnarsi come sottofondo di angoscia e solitudine alla quotidianità.
Un discorso, questo, affrontato in occasione della presentazione del testo Passaggi sul vuoto di Luciano De Fiore presso l’Accademia di Belle Arti di Roma, alla quale hanno preso parte Massimo Carboni, docente di estetica dopo un’esperienza pluriennale di critica d’arte, autore di numerosi testi di estetica, Tiziana Musi, storica dell’arte contemporanea e Dario Evola, insegnante anch’esso di estetica.
Ma come può essere visto questo Vuoto? Da un punto di vista artistico-estetico possiamo citare l’esperienza della pittura cinese di Shitao (XVII sec.), in cui la pennellata fluisce delicatamente per esprimere la sensazione, l’emozione stessa dell’eterno divenire della natura, o il “Saut sans le vide” (Salto nel vuoto) di Yves Klein, performance realizzata il 23 ottobre 1960, o le costruzioni di James Turrell. Ma non possiamo dimenticare le carte medievali, che sono il simulacro del remoto, tutto è presente, tutto è specificato perché l’occhio onnipotente di Dio tutto vede, sebbene non siano prese in considerazione le distanze esatte; le carte rinascimentali presentano, invece, enormi vuoti, poiché l’uomo rappresenta perfettamente ciò che sa e lascia all’indagine del viaggiatore quello che non ha ancora appreso. D’altro canto di fronte all’insicurezza e all’inquietudine di un’epoca non siamo proprio in grado di pensare che esista qualcosa che non possiamo conoscere, o vedere, o sapere.
Ma il Vuoto è anche il fondamento della religione cattolica. È necessario difatti che il sepolcro sia vuoto perché si attui il miracolo della Resurrezione, nodo di Gordio della dottrina cristiana, così come è necessario che Dio si inchini e si umili, si svuoti della divinità per entrare come uomo nel mondo per amore. E per amore bisogna odiare ogni proprietà, svuotarsi dei beni e vivere nell’imitazione di Cristo, come San Francesco d’Assisi.
“L’uomo che si è distaccato da se stesso è così puro che il mondo non può sopportarlo”, scrive Meister Echkart. “Amare la verità significa sopportare il vuoto, e di conseguenza accettare la morte”, afferma Simone Weil nei suoi Cahiers.
Nell’esperienza taoista, addirittura, il vuoto non è qualcosa rispetto al quale si possa pensare nichilisticamente, ma è un campo di possibilità e di “compossibilità” (come direbbe Leibniz).
VUOTO è persino la parola che compare sulla tomba del regista Ozu nel documentario “Tokyo-Ga” di Wim Wenders.
Quale valore dovremmo dare allora a questo Vuoto noi occidentali, che lo consideriamo un abisso senza fondo da cui è impossibile emergere, dove tutto può essere risucchiato e per sempre scomparire?
“Con il grido dell’uccello la montagna diventa ancora più quieta”, riporta Shin’ichi Hisamatsu (filosofo Zen e professore all’università di Kyoto che conobbe di persona il grande Heidegger) per la spiegazione della Quiete come uno dei tratti essenziali del divenire dell’Arte. La quiete del monte non è rovinata dal richiamo dell’uccello, anzi, paradossalmente è ancora più profonda.
Francesco Rotatori