di Anna Alfieri
Ho letto attentamente gli articoli di Piero Nussio sulla meteorologia tarquiniese passata, presente e futura. Articoli di cui ho apprezzato la precisione, la chiarezza e perfino l’eleganza delle tabelle e dei grafici. Ciò nonostante, per un attimo e quasi senza accorgermene, mi sono improvvisamente ritrovata a pensare alle gelide tramontane della mia infanzia, alle belle nevicate inattese a Tarquinia, allo spietato sole sui campi gialli di grano senza l’ombra di un’ombra, a pensare cioè alle inesprimibili stagioni del nostro cuore che nessun metereologo potrebbe mai raccontare davvero.
Sull’onda di queste emozioni, ho cominciato a cercare qua e là tra le mie carte qualcosa di evocativo e qualcosa di evocativo ho trovato: alcuni appunti per “L’extra” quando “L’extra” era ancora un giornale stampato su carta. Piccole cose, che ora trascrivo in fretta e alla buona aggiungendovi solo tre piccoli titoli. Nella speranza di essere chiara.
L’odore del nevischio
Un bel ricordo mi riporta alle novene dell’Immacolata e di Natale alle quali assistevo con grande trasporto adolescenziale nella Chiesa di San Francesco che, tra tutte le chiese di Tarquinia, mi sembrava la più bella e la più adatta alle cerimonie dal sapore antico e solenne. Novene affollate e quasi mondane, dove si poteva incontrare – erano i tempi del boom economico – qualche dama impellicciata con le mani cariche di anelli o qualche signore con il soprabito dal bavero di Astrakan. Gli altri indossavano spessi cappotti, maglioni a “cannolé”, sciarpe fatte a mano, e altri stratificati indumenti di buona e ruvida lana che, bagnati dalla pioggerellina o dal nevischio, emanavano un odore denso e specifico, quasi un afrore di covo che rivelava storie intime, storie personali, storie collettive e perfino storie antiche, nelle quali m’immergevo con strana voluttà, in attesa che giungesse il momento secondo me il più bello. Momento che si compiva quando nel lato sinistro dell’abside sbocciava – partendo da una interna balconata di legno, ora scomparsa – l’ampia, bellissima e trascinante voce baritonale di Padre Andrea Martini, frate minore francescano. Momento magico e fastoso durante il quale mi sembrava che, sotto il nevischio, non ci fossero al mondo chiese più belle di San Francesco in Tarquinia, né arcate più alte e sublimi e nemmeno adolescenti più esaltate di me.
La neve del 1996
Quella volta il concerto di fine anno si tenne nella Sala consiliare del nostro Comune e si aprì amaramente con una canzone che ci strinse il cuore. Era Abat jour che aveva accompagnato in un film da Oscar lo spogliarello che Sofia Loren eseguiva davanti agli occhi vogliosi e furbetti di Marcello Mastroianni. Indimenticabile e carissimo Marcello che si era spento il giorno precedente a Parigi, privandoci per sempre della sua saggia e disincantata leggerezza esistenziale. Poi vennero altre canzoni e altre ancora in un’atmosfera divenuta romantica e sempre più avvolta da una strana malìa natalizia che svelò il suo mistero quando, uscendo dal Palazzo, trovammo Tarquinia coperta da un manto di neve. La grande neve del ‘96, alta, morbida, intatta e perfino luccicante che, cadendo a larghi fiocchi senza che noi ce ne accorgessimo, aveva chiuso in un incantesimo cinematografico alla White Christmas di Bing Crosby le strade, i tetti, le torri, il campanile crestato di San Pancrazio, la balaustra davanti alla Chiesuola e le settecentesche volute della fontana di piazza.
Il sole a picco
L’orazione funebre in omaggio a Vincenzo Cardarelli fu pronunciata il 20 giugno 1959 da Trieste Valdi in piedi sulla loggetta prospiciente il portone di Palazzo Mariani in Piazza Matteotti. Quando la cerimonia fu sul punto di terminare, mio padre, mia madre ed io, credendo di precedere chissà quale flusso di folla, ci affrettammo a raggiungere la via del cimitero per dare l’ultimo saluto al poeta e ci fermammo davanti a Villa Tarantola. Ma lì, stralunati dal caldo, unici esseri umani in un luogo che avevamo immaginato fresco e traboccante di gente, assistemmo ad una scena surreale. Mentre il sole realmente a picco infiammava l’aria e faceva tremolare la campagna sulla quale, per dirla con il poeta, incombeva il silenzio delle civiltà tramontate, vedemmo giungere, come scivolando sull’asfalto che per la calura sembrava bagnato, il carro funebre seguito solamente da due persone che procedevano a piedi, una tutta bianca e l’altra tutta nera. Erano Mario Soldati, scrittore e regista, vestito di lino candido con un Panama chiaro sulla testa e, in scenografico contrasto, la scrittrice Flora Volpini completamente in lutto. Sì, due sole persone, sperdute in quel luogo immenso, disperato, sopraffatto da una calura infernale, due viandanti sconsolati e affannati che, riconoscendo in noi gli unici tre tarquiniesi allineati sul ciglio della strada per dare l’addio ad un altero cornetano brontolone e sublime, ci salutarono con un piccolo cenno della testa. Un piccolo strano cenno che, chissà per quale ragione, ricambiammo con un po’ di imbarazzo.