di Marco Vallesi
Davvero strana Tarquinia per chi la vive con lo smarrimento di un innamorato che la vede sfiorire, giorno dopo giorno, sotto i colpi inclementi della superficialità e dell’omologazione.
E non si tratta solo del pacchiano e volgare imbellettamento a cui sono sottoposti gli scorci più suggestivi e gli angoli più attraenti del vecchio e nobile centro storico.
Non sono, esclusivamente, gli eccessivi, irrispettosi e insulsi orpelli floreali o la lugubre presenza di falli e peduncoli in ghisa nera né le smarrite panchine in cerca di improbabili, stanchi viandanti né la policromia camaleontica delle luci che intacca la straordinaria, austera beltà dei suoi monumenti.
No, non dipende, completamente, neanche dalla progressiva eliminazione di quegli spazi, dove la vita cittadina s’intrecciava tra socialità e abitudini. Spazi oramai consegnati alle automobili e dei quali, oggi, solo la toponomastica può ricordarci la loro funzione originaria, cioè, quella per cui, un tempo non troppo lontano, furono “piazze”.
Dunque, c’è dell’altro a renderla strana, qualcosa di più sfuggente, di meno palpabile e visibile del forzato cambio di pelle.
Una mutazione che interviene anche sulle persone, forse, per effetto del progressivo ricambio generazionale o forse, per qualche malìa che si accanisce disgregandone la consapevolezza di vivere in un posto costruito dalla stessa, vitale storia dei suoi abitanti.
Un vissuto ed una storia che oggi sembrano plastificati, chiusi in un sistema sotto vuoto, decaffeinati, deteinati, igienizzati (nemmeno tanto…), ordinati sugli scaffali, pronti all’uso e al consumo prima della data di scadenza.
È l’illusione di una città che vuol fregiarsi di tutti i titoli del mondo, avendone diritto ma senza averne la cognizione, che rende tutto così tristemente inutile.
Non esiste un esempio della inconsistenza degli interventi, che si sono sovrapposti e stratificati nel tempo a determinare la presente situazione, che non può essere diverso da un’offesa allo stesso concetto di gestione delle risorse storiche, architettoniche, naturali ed umane.
Il fatto più avvilente è nelle risultanti drammatiche – spesso irreversibili – dello stillicidio di visioni parziali, ritardatarie e approssimate di un’estetica ad personam frutto dell’interessamento “d’ufficio” di qualsiasi cafone capitato tra capo e collo sulla Città.
Un esempio recente tra i tanti possibili. Santa Maria in Castello: sistemazione della strada; apparato aeroportuale d’illuminazione; ulteriore apparato illuminante modello “pacchiano è bello” per torre e facciata; manifestazione ad hoc “luci e fiori”: restano sul posto, parzialmente, entrambi; ricca cena d’”onore”, con invitati a go go, per mega-presentazione del mega-ufficio di informazione turistica e del nuovo mega-portale web correlato alla mega-guida turistica cartacea; applausi, congratulazioni, ringraziamenti e qualche rutto; chiusura del traffico locale con pilone fallico infisso al centro del primo arco d’accesso.
Chiuso il ciclo, chissenefrega se i residenti storici dell’area interna di S.Maria in Castello devono sentirsi oppressi dall’obbligo di circumnavigare, ogni volta che escono o devono rientrare in casa con le proprie automobili, un lungo, lunghissimo e scomodo tratto delle mura antiche per raggiungere qualsiasi meta; ma chissenefrega se, passata la baldoria, la fa-vo-lo-sa (in quanto narratrice di favole incredibili) mega-guida turistica, costata diversi occhi della testa, è da buttare, ormai, nell’apposito contenitore della carta differenziata; e ari-chissenefrega se, nella stessa guida, nelle attenzioni di chi vorrebbe “fare” promozione turistica (?), nella gente che ha beneficiato della gratuità della cena presso “l’antica trattoria in Castello”, non c’è neanche l’ombra d’un interrogativo, macché, un accenno o una molecola d’inchiostro stampato a domandarsi se esista o no uno straccio d’orario di visita alla monumentale chiesa più volte profanata da tanta blasfema prosopopea.
Figuriamoci se, tra i tromboni che hanno presenziato i bagordi, ce ne sia stato uno, uno solo, che si possa essere degnato di verificare o farsi venire uno scrupolo o un dubbio a proposito della presenza o meno di un senso in ciò che stava facendo.
Basta, è meglio non proseguire oltre. Si rischia, tra sdegno e rabbia, di vomitare.
Sì, una città che non si accorge di come stia cambiando direzione verso la china di un fatalismo di comodo con l’accettazione acritica di ogni “pappetta” che gli viene somministrata. Cibo per addormentare anche le residuali coscienze critiche e vino per annebbiare e rendere sfumati i contorni di un processo che rende, Tarquinia e le sue straordinarie risorse, sempre più simile ad un prodotto su uno scaffale in attesa di un cliente che lo acquisti per consumarlo e poi gettar via, differenziando, l’involucro a noi tanto caro ma, tragicamente a perdere.