Riceviamo da Luigi De Pascalis e pubblichiamo
Ieri per me, che pure non sono un ragazzino e nella vita ne ho viste tante, è stata una giornata molto speciale.
Negli ultimi anni mi ero più volte lamentato con amici e conoscenti per le decisioni spesso incomprensibili dell’amministrazione Giulivi. Mi sentivo come prigioniero nel paese in cui pure avevo scelto di vivere. Un paese in cui avevo pur trovato la calma e la concentrazione necessarie a scrivere e pubblicare in poco più di venti anni oltre venti titoli, tra cui un saggio e un romanzo dedicati alla storia di questo magnifico territorio (La porpora e la penna, ed. STAS e La congrega segreta, Newton & Compton). Un paese che avrebbe potuto essere un paradiso, mi lamentavo, e che invece molti cittadini oltre me avevano cominciato a considerare un luogo difficile da vivere.
A un certo punto ho capito che lamentarsi non bastava, che occorrevano impegno e lavoro. Ed è stato soprattutto per provare a cambiare ciò che secondo me non andava che ho accettato di candidarmi con M5S ben sapendo che – non essendo nato a Tarquinia e non avendo alle spalle una famiglia numerosa – il risultato sarebbe stato molto modesto. Messa in conto la sconfitta personale, ho partecipato e contribuito con entusiasmo al progetto della coalizione.
E ieri, appunto, da rappresentate di lista che seguiva lo spoglio in un seggio, ho visto che non avevo sbagliato, che il mio disagio era stato quello di tanti, per cui la città aveva risposto massicciamente alla promessa di cambiamento di Francesco Sposetti.
Il dialogo, il desiderio di ricostruire un tessuto sociale degradato, di rinsaldare il sodalizio tra i cittadini, di tornare a farci sentire una comunità non prigioniera dei capricci di pochi ma aperta alla sensibilità di tutti, amici e avversari politici, hanno portato a un risultato di ballottaggio che francamente mi aspettavo, ma non nella schiacciate misura emersa dalla spoglio delle schede.
Gli applausi a Sposetti davanti ai seggi, le trombe da stadio suonate da bambini e adulti, le grida di entusiasmo in fondo fanno parte di rituali consolidati dopo ogni elezione cittadina. Tuttavia a una cosa non ero pronto, anzi non l’avrei neppure immaginata, una cosa che ha commosso me come tanti altri cittadini, alcuni con le lacrime agli occhi. Quando si è deciso di attraversare in gruppo la città per andare sotto il palazzo comunale e ho visto Sposetti applaudito e abbracciato da chi era in strada in quel momento, tra brindisi non previsti e persone che volevano fare dei selfie col nuovo sindaco e altre che riprendevano la scena con i telefonini anche dai balconi di casa, ho capito che era accaduto qualcosa di più grande di una vittoria elettorale.
Era una festa. Era un coro liberatorio. Era un risveglio dopo anni di timorosa sonnolenza, in cui molti erano preoccupati di possibili ritorsioni dell’inquilino del municipio. Cosa ben lontana dai concetti di democrazia e partecipazione. Perché un sindaco è e deve essere per legge – con responsabilità e onore, secondo la Costituzione – il sindaco di tutti, di chi la pensa come lui e di chi la pensa diversamente. Questo è il sale della democrazia.
E proprio questo entusiasmava la gente lungo il nostro percorso. Concetto sintetizzato da un anziano cittadino incontrato lungo la strada che non ha resistito a gridare più volte: “Allora non siamo morti, siamo vivi!”. Ebbene, è stato quel grido liberatorio e spontaneo a commuovermi e a farmi capire che avevo fatto bene a contribuire nel mio piccolo al cambiamento.
E siccome non siamo morti, ma siamo vivi – tutti! – dobbiamo sapere che ci aspetta un lungo percorso, a volte in piano ma più spesso in salita, in cui Sposetti, la giunta, gli assessori il più possibile scelti per competenza e onestà, risponderanno con tutte le loro energie. Ma, teniamolo bene a mente, poco o nulla potranno i nuovi amministratori se la città intera non contribuirà al cambiamento col risveglio del senso civico, con la partecipazione attiva e con la consapevolezza che siamo tutti, “sposettiani” e oppositori politici, cittadini di un’unica città: Tarquinia! E che questo conta più di ogni altra cosa.