(s.t.) Prendere parte al giro del mondo in barca a vela: è qualcosa di abbastanza clamoroso? Aggiungeteci di farlo in un equipaggio per la maggioranza composto da non professionisti e con un uso limitato, anzi quasi nullo, della tecnologia: è un’impresa sufficiente?
Non per Marco Borgia e i suoi compagni d’equipaggio su Translated 9, lo yacht da 65 piedi che ha affrontato l’edizione 2023 della Ocean Globe Race e che, scrivendo un pezzo di storia, l’ha vinta, tagliando il traguardo di Auckland che ha segnato la tappa finale della regata, quella che ha visto protagonista anche Marco, tarquiniese doc in veste da navigatore nelle acque oceaniche del profondo sud del mondo.
Marco, com’è nata la passione per la vela?
“Mio padre lavorava nel settore navale, era direttore commerciale di una azienda di motori per la nautica da diporto e l’offshore, quindi io sono cresciuto in mezzo al mare. E la passione per la vela è nata grazie all’amicizia con Simone: il padre, Leonardo, aveva una barca a vela e faceva regate, una volta ci portò con lui e da lì comincio la mia carriera da velista e marinaio”.
Una scoperta che, in qualche modo, ha indirizzato la vita di Marco: “Ho iniziato a studiare e cercare di stare per mare il più possibile, quando non lavoravo. In circa 15 anni ho fatto un sacco di regate nazionali ed internazionali: con un equipaggio di amici, nel 2017, abbiamo anche vinto il campionato nazionale offshore di vela. Nel frattempo, sono diventato armatore, con i miei migliori amici, di due imbarcazioni che abbiamo preso in situazioni disastrose e fatte tornare ad essere bellissime barche a vela”.
Poi, quasi improvvisa, l’occasione della …: “Un’esperienza nata un po’ per caso. – racconta Marco – Io ero il comandante della barca con cui Translated ha fatto le selezioni dell’equipaggio: un po’ per predisposizione, un po’ per sintonia, ho contribuito anche alla selezione dell’equipaggio stesso e mantenuto un ottimo rapporto di stima ed amicizia, sia con l’armatore e gran parte dello staff, sia con lo skipper,Vittorio Malingri, che è una leggenda della vela italiana. Insomma, ho sposato in pieno i valori del progetto e quando potevo andavo in cantiere a dare una mano alla preparazione della barca”.
Ma il bello della storia deve ancora venire: “Da ottobre 2022 l’equipaggio selezionato si è allenato in giro per il mondo in preparazione di questa regata, partita a settembre 2023 in Inghilterra. – continua Marco – Fatto sta che al termine della prima tappa, un membro dell’equipaggio non era più disponibile e quindi è arrivata questa proposta che non mi sono fatto sfuggire, grazie anche alla mia azienda che me l’ha permesso”.
Un salto in una dimensione fuori dal tempo, in un evento che tocca l’estremo sia della passione per la vela che delle condizioni in cui si vivono le oltre 7000 miglia.
“La regata è una riproposizione della prima regata in equipaggio intorno al mondo. – spiega Borgia – Quindi zero tecnologia, zero confort. Tu devi andare da una parte all’altra del mondo solo con le tue conoscenze e la tua forza, fisica e mentale. E devi farlo prima di altre quindici barche, con equipaggi che arrivano da ogni parte del mondo. La vela è uno sport di fatica e resistenza ed è per antonomasia uno sport di squadra, durante le manovre si lavora in sintonia, se questo non avviene e le procedure non vengono svolte alla perfezione si possono fare danni e ci si può fare molto male. Soprattutto poi se ti trovi a 3.000 miglia dal resto della civiltà”.
Come funziona, proprio dal punto di vista pratico, una traversata del genere? “Eravamo divisi in due turni da cinque persone e ci davamo il cambio ogni sei ore. Il mio turno era dalle 8 alle 14 e dalle 20 alle 2 di notte, quindi noi facevamo l’unico turno di notte poiché alle 3 già albeggiava. Io ero timoniere ed anche in questo ci dividevamo il compito ogni ora, poiché la fatica che si faceva era impressionante e la concentrazione doveva essere massima. Noi per 37 giorni, ogni sei ore, non dovevamo pensare ad altro che a mandare quella barca più velocemente possibile. Tutto questo con circa uno o due gradi di temperatura, venti da 30 a 50 nodi e onde fino a otto metri di altezza. Infatti le mie mani non verranno più bene!”
Non che le fasi di “riposo” fossero di comfort: “Quando non stavo al timone partecipavo alle manovre issando ed ammainando vele in base alle condizioni del vento: immagina che lì una vela pesa oltre 100 kg e tutto questo lo fai andando a prua con le onde che spazzano il ponte, e infatti eravamo legati ad una lifeline”.
Tra tutti, ricordi un momento più difficile? “Quando terminavo il turno ed ero completamente bagnato, ognuno dei cinque strati con cui ero vestito. Andavo sotto coperta, mettevo tutti i vestiti in un armadio riscaldato e mi infilavo nel sacco a pelo, per svegliarmi dopo poche ore e rimettermi tutto, anche se spesso non c’era stato tempo per far asciugare vestiti e cerata e tu comunque dovevi uscire. Ecco, immagina tutto questo per 37 giorni senza soluzione di continuità. Il freddo intenso che congelava gli occhi e la fatica devastante sono le cose che ricordo di più”.
Ma quello che uno porta a casa, alla fine, sono anche emozioni e ricordi pazzeschi: “Dalle balene che giocavano agli albatros enormi, tutto ciò che leggi nei libri di avventura del grande sud, ma più di più tutto i delfini che, tramite la bioluminescenza del plancton, danzavano di notte intorno alla barca e sembravano scie luminose nel mare nero”.
In un evento sportivo, però, l’emozione è legata anche alla competizione. “E infatti la roba più bella è stato l’arrivo. – conclude Marco – Noi per 37 giorni non avevamo sentito nessuno, non sapevamo nulla del resto della flotta, quindi potevamo essere anche ultimi, non ne avevamo idea, dovevamo solo pensare a correre e sopravvivere. Beh, pensa al traguardo quando ci hanno detto che eravamo primi, non solo in compensato, ma addirittura in reale. Li siamo impazziti! Sarebbe già stata un’esperienza incredibile così, solo per l’opportunità di averla potuta fare. L’Everest del velista! Ma averla vinta, così nettamente, ci fa entrare nella storia della vela italiana e questo è ancora oggi qualcosa di inimmaginabile”.