Riproponiamo un articolo di Anna Alfieri, pubblicato su L’extra nella sua versione cartacea e uscito nelle edicole il 23 aprile 2007.
Nei primissimi anni del ‘900, a primavera, molti nobili romani in pantaloni alla zuava e giacca sportiva praticavano, nelle strade della capitale, una metropolitana caccia alla volpe che, in assenza di volpi, segugi e cavalli, veniva attuata in bicicletta e regolata da un severo comitato che decideva chi tra i partecipanti dovesse essere il Master, chi la preda, chi i cani e chi i cacciatori a pedale.
La prima battuta di caccia in velocipede si svolse mercoledì primo maggio 1901 e in quell’occasione la volpe venne rintracciata, dopo un lungo inseguimento, nei pressi del collegio Romano da Daniele Varé, ambasciatore italiano in Cina, e dal principe Don Innocenzo Odescalchi, entrambi in funzione di cani. Nella seconda caccia, la preda venne acciuffata dopo un galoppo corto e faticoso in piazza di Siena e, nella terza, il marchese Cavriani, volpe spericolatissima, si spiaccicò direttamente negli stipiti di Porta San Sebastiano.
Per quanto possa sembrare strano, giochi simili a questo vennero praticati in Tarquinia per ben 13 anni consecutivi, esattamente dal 1970 al 1982. Essi consistevano in una grande caccia all’uomo, da consumarsi nel labirintico centro storico della nostra città, con l’unica differenza che i ruspanti cornetani correvano a piedi, mentre i nobili capitolini lo facevano in bicicletta.
I Ludi Tarquiniensi si svolgevano il Giovedì Santo, primo giorno di vacanze pasquali, di ritorni al paese, di risvegli ormonali primaverili e di intensissimo passeggio serale, durante il quale i ragazzi e le ragazze in visita ai Sepolcri si incontravano più volte. Incontri da lungo tempo sognati, anche perché si sarebbero potuti ripetere la domenica successiva in occasione della processione del Cristo Risorto e a Pasquetta nelle gite alla Roccaccia e all’Ancarano. Ciò nonostante, visitata l’ultima chiesa e accompagnata a casa l’ultima ragazza, i giovani maschi cornetani improvvisamente dimenticavano tutto e si precipitavano in un luogo prestabilito con l’unico e virile intento di rincorrersi a vicenda.
Per i nobili della Belle Epoque romana il punto di raccolta era il Gran Caffè Pasticceria Latour presso Palazzo Colonna a Piazza Santissimi Apostoli. Per i giovani tarquiniesi degli anni ’70 era invece il King Bar, davanti ai giardinetti di Viale Luigi Dasti dove, ad attenderli, al posto di Don Giovanni Colonna duca di Cesarò e di Don Camillo Ruspoli duca di Candriano, c’era, come Master of the Hounds, Pino Moroni che spiegava le regole alle quali tutti avrebbero dovuto attenersi.
La caccia avrebbe avuto inizio alle 22 precise e si sarebbe conclusa inderogabilmente a mezzanotte, all’ultimo rintocco dell’orologio di piazza; i partecipanti sarebbero stati divisi in Fuggiaschi (pochi), Inseguitori (molti) e Staffette in numero variabile di anno in anno. Il terreno di battaglia sarebbe stato solo ed esclusivamente il centro storico della città, ipoteticamente chiuso dalle sue antiche porte d’accesso e diviso in quattro settori di perlustrazione.
I fuggiaschi, pena la squalifica, avrebbero dovuto nascondersi solo in luoghi aperti e pubblici, senza entrare nei portoni delle case private, specialmente delle proprie, e la loro cattura sarebbe dovuta avvenire non per semplice avvistamento, ma per concreto contatto fisico o, meglio, per duro e spietato placcaggio.
Il primo fuggitivo che la storia ricordi fu Arrigo Bergonzini, che sparì nel nulla. Circostanza, quest’ultima, da molti smentita perché la tradizione più radicata vuole che, in tredici anni di ludi primaverili, nessuno fosse mai sfuggito alla presa degli inseguitori, ad eccezione di Carlo Bicchierini che, rifugiatosi in Campo Cialdi, a quei tempi terreno insidioso, orrido ed evocatore di ancestrali paure di macabri scherzi notturni, lì restò indisturbato fino all’alba. Nemmeno Brigetto, che era Brigetto, si sottrasse alla cattura, nonostante si fosse arrampicato – biondo folletto scattante senza peso – sulle impalcature del palazzo comunale in restauro, svanendo nei saloni sventrati, per fare poi capolino ora dall’una, ora dall’altra finestra, agilissimo, beffardo e provocatorio come solo lui sapeva essere.
Pietro Cardoni fu scovato al Cancellone, mimetizzato in un mucchio di terriccio; Cesare Calandrini venne rintracciato, all’esatto scadere della mezzanotte, dietro il monastero delle Passioniste e tre dei quattro fratelli Contestabile cercarono invano rifugio nel buio dell’arco di San Pancrazio. Perfino l’astutissimo Franco Trippanera e il veloce Renatino Rosati furono acciuffati senza scampo, in luoghi strani ed oscuri che la storia non ci ha tramandato. Gli inseguitori, accaniti e ringhiosi segugi che non mollavano mai la preda, furono moltissimi, praticamente quasi tutti i maschi nati tra gli ultimi anni ’40 e la seconda metà degli anni ’60.
Impossibile elencarli tutti ed ingiusto tralasciarne qualcuno, perciò è politically correct e storicamente utile accennare almeno al fatto che tra gli scalmanati del Giovedì Santo ci fu perfino l’attuale sindaco della nostra città, Alessandro Giulivi.
Alla fine di ogni battuta di caccia, i vincitori e vinti si riunivano per fare il punto della situazione. A Roma si ritrovavano alla Casina delle Rose di Villa Borghese o al ristorante Bucchi in piazza delle Coppelle 58, dove il Principe Don Ludovico Potenziani Grabinski di Castel Viscardo offriva rinfreschi e pagava i danni provocati alle stoviglie dai cacciatori più esuberanti. A Tarquinia, invece, fuggiaschi e inseguitori confluivano stanchi e scarporiti al Bar Diana da dove, bevuta una birretta senza provocare danni a cose e a persone, se ne tornavano piano piano a casa, per tranquillizzare i genitori che non si sarebbero addormentati se non li avessero sentiti rientrare.