di Anna Alfieri
Quando Facebook – nelle cui spire sono ormai intrappolata da anni, ma va bene così – mi chiese quale fosse la persona più importante o più nota che avessi mai incontrato, mi apparve immediatamente, con l’arroganza di una folgore inattesa, l’immagine di Gianni Versace. Gianni Versace che – camicia e pantaloni neri sorretti da una piccola cinta di cuoio chiusa da una fibbia d’argento sbalzato – condivise di buon grado con me e con altri sconosciuti il tavolo esterno di un bar troppo affollato in piazza del Duomo a Spoleto durante un Festival dei Due Mondi di tanti anni fa.
Sarebbe stato invece più logico e rispettoso evocare, prima di quello con un uomo tutto vestito di nero, il mio incontro ravvicinato con un uomo tutto vestito di bianco sul marciapiede della stazione Trastevere di Roma.
Ma – la mente è strana – il gioco barocco di una fibbia d’argento scolpito indossata dallo stilista più noto e visionario del mondo aveva ormai vinto su tutto.
L’uomo bianco a Trastevere era Giovanni Paolo II, anzi San Giovanni Paolo II, di ritorno da un viaggio in India. Il giorno, bianchissimo anche esso, era l’11 febbraio del 1986, quando una spessa coltre di neve aveva reso impraticabile ogni angolo di Roma e periferia, aeroporti compresi. Per questo l’aereo pontificio era atterrato a Napoli e per questo il Papa era salito sul primo treno diretto verso l’unica stazione funzionante della capitale. E lì, livida e intirizzita, c’ero anche io insieme a poche altre persone disperate e confuse come Napoleone nella ritirata di Russia o Zivago accerchiato dai lupi. Sua Santità, che amava la neve, era invece roseo e sorridente come uno scolaretto in vacanza e, poiché per vocazione e missione credeva nella provvidenza divina, ci assicurò che presto avremo ritrovato la strada di casa perduta nella bufera e ci benedisse in letizia.
Eppure il mio incontro più interessante ed esotico accadde a Tarquinia il 13 giugno 1998. Il protagonista di quell’evento, un uomo di piccola statura e di carnagione olivastra illuminata dallo sguardo languido ma pungente dei medio orientali di tipo speciale, si chiamava Yasser Arafat ed era il presidente dell’Autorità Nazionale della Palestina, paese da lui stesso creato e difeso a oltranza. Un uomo passionale e astuto, complesso e controverso, idolatrato da molti e odiato da altri, bersaglio, continuo, di molti attentati. E, infine, tra tanto sangue ovunque versato, premio Nobel per la pace insieme a Peres e Rabin, ebrei.
Nell’attesa di un capo di Stato così carismatico e avventuroso, amico del nostro Luigi Daga, Tarquinia assunse un’aria mondana e guerriera. Infatti, mentre i cecchini palestinesi si appostavano sui tetti per sventare ogni possibile attacco e mentre gli immigrati islamici ormai residenti nella nostra città gridavano Allah akbar assiepati intorno al Bar Impero e guardati a vista dai carabinieri locali armati fino ai denti, un elegante tappeto rosso (transennato) attraversava Piazza Cavour e accompagnava gli ospiti a una cena di benvenuto apparecchiata intorno al pozzo di Palazzo Vitelleschi.
Anche io ero provvista del mio bel cartellino di invito personale numerato. Ciò nonostante Giovanni Sartori, che mi conosceva benissimo ma che, in quel momento fatale, era il massimo responsabile dell’ordine pubblico, controllò tutti i miei documenti in ogni loro dettaglio, frugò nella mia borsa e fu perfino sul punto di palpeggiarmi per rassicurare gli agenti palestinesi che fossi davvero io e, per di più, disarmata.
Arafat atterrò con il suo elicottero nel campo sportivo illuminato a giorno e giunse a Palazzo con grande ritardo sull’ora stabilita, quando i convitati a quella cena “in piedi”, e quindi non confortata da sedie o da altri punti di appiglio, erano sul punto di crollare esausti qua e là mettendo a rischio uno dei patrimoni archeologici più importanti del mondo. Solo più tardi Giovanni, ormai del tutto rassicurato che io fossi io e priva di armi, mi permise insieme ad altre innocue persone di accompagnare l’ospite d’onore ai piani superiori del museo.
E lì, nel piccolo spazio di accesso alla sala dei Cavalli Alati, mi accorsi che il Presidente della Palestina indossava una vecchia divisa consumata dal tempo e dall’uso, commovente come quella di un soldatino sempre in trincea determinato a vincere oppure a morire. Solo allora capii veramente che quel piccolo uomo dagli occhi dolci e brillanti sotto la kefiah a quadretti bianchi e neri non “rappresentava” la storia, ma “era” la storia nell’atto del suo svolgersi nobile cruento e sentii un brivido difficile da definire in parole.