di Anna Alfieri
Mio padre era un tarquiniese verace e grandioso che, come tale, ancora credeva d essere un etrusco discendente da Tarchon (Tarconte), il pricipe contadino e guerriero che fondò una città sacra alla quale diede il suo nome: Tarch-on, Tarch-na, Tarch-una, Tarquinia.
E la fondò nel punto preciso in cui, arando il suo campo, vide emergere dalle zolle un pallido giovinetto già vecchio che gli disse di essere Tagete, figlio del Genio e nipote di Tinia, il dio delle folgori. Poi, con voce di non umana bellezza che fece fremere l’aria e arricciare le onde del mare, gli rivelò la magica corrispondenza tra il cielo e la terra, i misteri degli Dei Superiori, di quelli Consenti e di quelli Involuti, e gli dettò le leggi alle quali ogni Etrusco avrebbe dovuto attenersi. Infine, prosciugato dal sole che quel giorno sembrava danzare nel cielo e svuotato dall’immensità della sua rivelazione, appassì come un fiore e scomparve lentamente nella terra dalla quale era sorto.
Mia madre, invece, non si sentiva affatto etrusca perché era nata a Priverno, nel cuore verde del Lazio meridionale, in una terra che in tempi antichissimi era coperta di boschi inestricabili dove ululavano i lupi e dove i fiumi cristallini sfociavano ai piedi del monte dove Circe tesseva i suoi strani incantesimi. La terra arcana dove viveva il popolo orgoglioso e selvatico dei Volsci.
La regina di Priverno era la vergine Camilla che, consacrata a Diana cacciatrice, indossava un diadema d’oro, una pelle di tigre e una faretra licia nella quale, correndo più veloce del vento a piedi o a cavallo, conservava le sue frecce infallibili. Ma, circondata dalle sue amazzoni, era armata anche di fionda, di asta e di scure, perché spesso, lei sola, guidava in battaglia l’intero esercito Volsco.
Camilla era stata allevata con il latte di una cavalla e aveva imparato a vivere tra le fiere da quando suo padre, il re Metabo, braccato da mille uomini che volevano uccidere entrambi, l’avvolse – neonata – nella corteccia di un albero e, dopo averla legata al suo giavellotto, la lanciò oltre il fiume Amaseno che, in piena e ribollente di onde invalicabili, gli aveva precluso ogni altra via di salvezza.
Era questo, proprio questo, ciò che mi raccontava mia madre a Priverno, indicandomi l’Amaseno che scorreva tranquillo verso la Casa di Circe attraversando tanti orti, giardini e frutteti ben coltivati. E io mi incantavo cercando di indovinare con gli occhi il luogo in cui Camilla, quando era piccola come allora ero io, già domava i cavalli, e quasi volevo giocare con lei.
Così come, a Tarquinia, mi incantavano tra tanta campagna i sentieri che Tarchon percorreva quando guidava verso terre lontane il suo variopinto esercito etrusco accompagnato dal ruggito delle trombe tirreniche e seguito da un buffo corteo di saltimbanchi, giocolieri, danzatori e, soprattutto, di aruspici sacri.
E tanto pensavo, tanto immaginavo, tanto sognavo che, come accade solo ai poeti e ai bambini un po’ strani, annegavo in un mare di emozioni, in cui il naufragare era dolce.
Poi, a scuola, lessi l’Eneide e il mondo segreto della mia mitologia infantile nella quale Camilla e Tarconte vivevano le loro vite parallele e diverse, improvvisamente si frantumò nel modo più doloroso possibile.
Come racconta Virgilio, tutto iniziò quando Enea, dalla cui stirpe sarebbero nati i fondatori di Roma, sopravvisse all’incendio di Troia e, dopo aver molto viaggiato, approdò sulle coste del Lazio dove trovò la resistenza di alcuni popoli locali che lo costrinsero, di nuovo, alla guerra.
Tarchon si schierò al suo fianco e, raggiunte le rive del Tevere su una flotta partita dalla foce del Mignone, scese subito in campo dove, schiumando d’ira, si faceva largo a colpi di spada, di lancia e di scure, esortava i suoi etruschi chiamandoli per nome, spronava gli incerti, rincuorava i feriti, avvinghiava i nemici strappandoli dai loro cavalli e li trascinava nella polvere per ucciderli senza pietà.
Anche tra le schiere avversarie c’era un guerriero che, altrettanto feroce, “or di dardo fulminando, or di spada, or di lancia”, seminava morte e terrore. Ma Arrunte di Tarquinia ne controllava le mosse e, nascosto tra gli alberi su ordine di Tarconte, soppesava le sua lancia in attesa che lui si esponesse.
E lui, il guerriero invincibile, improvvisamente si scoprì. Ma era una ragazza, era Camilla, Camilla dei Volsci, l’amichetta immaginaria dei miei giochi infantili che, eccitata dalla lotta, spronava il suo cavallo in avanti in cerca di nuove prede da uccidere. Arrunte non tremò e l’asta di Tarquinia, sibilando sicura, la colpì a morte fermando per sempre la sua corsa. E spezzando il mio cuore bambino.