Riceviamo e pubblichiamo
Il giorno 27 aprile 2021, nella sala espositiva Il Laboratorio, il collettivo donnArgilla presenta la mostra Terra Vita Dimora, a cura di Michela Becchis, con le opere di Maria Flora Clementelli, Claudia Di Mario, Francesca Fenu, Marina Gigli, Emanuela Mastria, Angela Nencioni, Gaia Pagani, Elena Tonellotto, Francesca Trubbianelli.
“Torna a fare una mostra il collettivo DonnArgilla e torna in un momento in cui sembra ancora più indispensabile ragionare sulla Terra non solo come luogo della vita, ma soprattutto come dimora. Cos’è una dimora esattamente? Non volendo ricordarci che, credendo o meno in un al di là, ciascuno di noi è in transito sul pianeta, la dimora secondo il dizionario giuridico “È costituita dal luogo nel quale una persona abita e svolge in maniera continuativa la propria vita personale”. Ecco, tutto ruota intorno alla riflessione di cosa sia “la vita personale” per ciascuna delle artiste che in questa mostra si racconta, perché quand’anche sembrano raccontare di sé in realtà si assumono la responsabilità di narrare la dimora di tutti, di dire per figura certi pensieri che, mai come in questo momento storico, colgono e intorno a cui si ragiona mentre svolgiamo in “maniera continuativa” la nostra vita. Sono pensieri che accompagnano, declinati in molti modi diversi, la nostra quotidianità, ma che spesso teniamo un po’ in disparte, lontani dalla superficie e che quando affiorano ci obbligano a fermarci, a rimanere come in attesa, dentro un certo indugio. […]
Flora Clementelli con i suoi mondi ci narra della condivisione del dolore, del sopruso indicibile dei poteri, della violenza taciuta perché troppo immane. Di come non c’è pace senza che la dimora non sia di tutti e per tutti, di come nella condivisione abiti il rischio di diventare “maceria” e provochi spavento, la percezione cioè di un danno di cui si è partecipi. Ma pure è l’acquietarsi nella condivisione che ci consente di far germogliare la volontà di rinascere diversi.
Claudia Di Mariomette a dimora la sua crescita e decide di darle una forma, e così facendo la rende visibile e disponibile al mondo, insomma ce la dona. Ci racconta così la possibilità di sentire l’eco, la risonanza di un diverso andare, vale a dire l’aver capito che davvero mentre il corpo è obbligato alla dimora, si possono dedicare tutte le proprie energie a “fiorire comunque”, a sentire, anzi a pretendere da se stessi a volte di sentire, un’invincibile eppure delicata primavera.
Francesca Fenuriflette nelle sue opere sull’obbligo della maternità. Due donne, una un automa, l’altra una creatura triste. È il dialogo tra loro che guardiamo, tra chi viene costretta nella dimora di una perfezione che le strappa l’autenticità della vita, e chi è piena di un’altra vita che non le dà felicità. Insieme compongono un dittico dedicato alla Terra Madre a cui sembra venga cancellata la gioia di sentire radicarsi nel suo corpo un necessario equilibrio tra natura e artefatto.
Marina Gigli mette le mani dove la Natura è preponderante, dove sembra che si possa ascoltare il suo suono che interagisce col brusio che fanno i nostri pensieri. Questo intrecciarsi quasi di musiche, composto da elementi naturali e lavoro umano, sembra essere il canto di quell’umanità verso cui è venuto meno ogni interesse. E sono la cesura e l’incapacità di cogliere con tutti i sensi questa sorta di paesaggio unico a costituire la più grave delle perdite.
Emanuela Mastria scrive di dimore su fogli di porcellana. Scrive di città/foreste nella sottigliezza delle sue pergamene, che poi sono case. Modella e scrive di abitazioni sempre un po’ lasciate aperte, mai sigillate perché è nella parola, che si fa capace di accogliere molti significati, che risiede il senso della quotidiana esistenza e della vita, perché in quelle case che si illuminano per accogliere colloqui, dialoghi, umani scambi che risiede e trova senso ciò che lei intende per Natura.
Angela Nencionisegue una frase di Gandhi per le sue opere: La Terra ha abbastanza per soddisfare i bisogni di tutti, ma non per l’avidità di pochi. Nell’avidità risiede l’assenza di rispetto e di cura che sono al centro delle due opere. Una donna foglia, le cui marcate venature del delicato abito ci parlano di una linfa ghermita, sottratta, violata; una culla, la dimora che dovrebbe essere sicura e accogliente per sua natura e che troppo spesso è il luogo dell’iniquità del possesso.
Gaia Pagani lavora sull’essenzialità di linee e di concetti. Essenzialità che è fulgore del naturale, limpidità dell’atmosfera, purezza del linguaggio, del pensiero; un nitore che disegna la possibilità, un germoglio appunto, di una sottile speranza che diventa richiamo e recupero di una nozione tutta culturale che nella sua apparente semplicità è capace di tessere e riconfigurare mondi diversi: l’ospitalità, il nutrire l’ospite. Un gesto privo di profitto e per sua natura disarmante.
Elena Tonellotto conversa con Pessoa, ma sapere che tutti saremo interrotti prima di finire, finire i progetti, finire le speranze, finire ciò che abbiamo cominciato a fare, non riversa sul suo lavoro tristezza e soprattutto immobilità. Questa consapevolezza diventa un invito a se stessa e a noi a esplorare e a slanciarsi verso il futuro, a trovare il nostro posto fuori dal pericolo che ogni dimora possa diventare una valigia che chiudiamo riponendo definitivamente i nostri sogni.
Francesca Trubbianelli mostra un’umanità lontanissima come vista da un binocolo mal funzionante. Un cammino di creature che abitano un altro mondo così distante che sembrano non entrare nel nostro campo visivo se non quando ci si vuole appropriare di diritti che non vediamo aver loro già sottratto e che esibiamo come trofei. Piccole figure per le quali il paesaggio entro cui sono obbligate ad andare, cercando l’improbabile “America”, non muta nonostante accadimenti che a noi sembrano apocalissi. […]” (dal testo critico di Michela Becchis)
donnArgilla è un collettivo di ceramiste che nasce nell’estate del 2015, con lo scopo di raccontare la passione per il “fare ceramica”, il proprio legame con la materia argilla e con un mestiere antico come l’uomo e soprattutto la donna. La prospettiva, infatti, è tutta al femminile e molto sfaccettata, poichè il lavoro di ognuna riflette la propria unicità.