Riproponiamo questo pezzo di Anna Alfieri datato 2010, quando ancora L’extra usciva su carta, per augurare a tutti una felice Pasqua.
Le nove croci trionfali della nostra processione del Cristo Risorto sono in realtà dieci. La decima croce – che è nata solo alla fine degli anni novanta e che io chiamo la Consolatrice, perché va a visitare i malati, o la Solitaria, perché è l’unica a farlo – ha lo strano destino di compiere il suo intero tragitto fuori delle mura cittadine. Infatti, sebbene inghirlandata di alloro e di fiori come le sue consorelle più antiche, non entra mai insieme ad esse nel centro storico del paese, ma aspetta il Signore fuori Porta Garibaldi, appoggiata alle mura castellane che in questo periodo sono punteggiate di erbe primaverili e ciuffi di viole di Pasqua.
Se osservata da lontano, visivamente sopraffatta dalla mole dei muri perimetrali che degradano da Porta Clementina e sembrano perdersi verso il mare e l’infinito, essa appare piccola e modesta. Eppure, non appena dal cuore della Città arriva – prima ovattato e poi assordante – un fragore di spari e di musica, si stacca dal muro e, alta e pesante, prende spavaldamente posto al centro della strada. Poi quando Lui, esaltato dalla sua raggiera dorata, finalmente emerge dal buio dell’arco con la forza di un’autentica resurrezione, essa comincia a camminare elegante, veloce, naturale e necessaria e Lo accompagna lungo viale Bruschi Falgari e viale Igea, fino all’Ospedale. Infine, visitati i malati, Lo precede sulla via del ritorno.
Ma, ecco la stranezza, giunta davanti all’invalicabile porta cittadina dalla quale era partita, la Solitaria si arresta, si ritrae e silenziosamente svanisce nel nulla senza che nessuno se ne accorga. Nemmeno il Signore che, inconsapevole della sua mancanza, rientra in Città per raggiungere le sue Croci più antiche: le tre di San Giuseppe, tra le quali c’è la Maggiore, e via via le altre sei appartenenti ad alcune chiese locali. L’incontro, che è spettacolare, avviene in fondo alla discesa del Mattonato e lì, proprio lì, in via XX settembre, si svolge anche un mio importante, immutabile, minuzioso e scaramantico rito personale. Perché lì, da tempo immemorabile, ritrovo ed abbraccio i miei amici più cari, quelli veri e profondi che mi furono spensierati complici nelle lievi cose giovanili e che ora mi sono fidati compagni in quelle più severe dell’età matura. Uno di questi, da sempre armato di una storica cinepresa, ogni anno documenta il nostro arrivo sul posto, sicché, nel suo prezioso e ormai più che trentennale archivio, tutti appariamo nelle varie fasi della vita, da quando eravamo giovani, belli, allegri ed arditi, ad ora che tanto giovani non siamo più – e nemmeno bellissimi – ma ancora arditi e spesso perfino anche allegri.
Scrivo tutto questo non per parlare di me, ma per spiegare meglio come – nel grande evento collettivo della Pasqua tarquiniese – si snodino, si intreccino e si tramandino di anno in anno tanti altri piccoli, affettuosi e precisi riti personali, familiari e amichevoli che, almeno per un giorno, riescono a sciogliere la nostra scontrosa spigolosità di cornetani superbi e pudichi. E, in fondo, è proprio in questo festivo scambio di sentimenti affettuosi apertamente espressi che consiste il valore forte e coesivo della nostra processione più grande. Strana processione che i forestieri, frastornati dalla pressione della folla, dagli spari dei cacciatori, dall’incalzare della musica, non riusciranno mai a comprendere del tutto. Né mai capiranno davvero come l’altro suo segno specifico consista in un’antica e pagana esplosione di primaverile virilità maremmana, nella quale le donne hanno solo il consapevole ed accettato ruolo di marginali spettatrici.
Non c’è infatti una donna – se non qualcuna mimetizzata nella banda musicale – che partecipi da protagonista all’evento. Non c’è la Madonna che, sempre presente nelle analoghe manifestazioni degli altri paesi, corra con passi lieti e leggeri ad abbracciare il Figlio Risorto. Non c’è una sola bambina vestita da angioletto che sparga petali di rose e non ci sono, nemmeno per sbaglio, le pie donne che, in duplice fila, aprono sempre i cortei religiosi. Non una delle fanciulline in fiore che durante la processione del Venerdì Santo sorreggono i simboli della Passione, e nemmeno la ragazzina dai capelli sciolti che, occhi rivolti al cielo, impersona il Nazareno sulla via del Calvario.
In compenso, c’è la statua di un Cristo trionfante, bello, robusto e virile perfino nello sguardo, gloriosamente portata a spalle da briosi uomini fieri e fortissimi. Ci sono cacciatori armati di fucile che sparano in aria. Ci sono più di trenta adrenalinici ed eretti portatori di “tronchi”, che hanno polsi di acciaio. Poi uomini in casacca azzurra che sorreggono lo stendardo della Confraternita di San Giuseppe, ed altri uomini, sempre vestiti d’azzurro, che inalberano sei strani lampioni, muovendoli a passo di marcia. Infine, un piccolo e mascolino drappello di Autorità religiose, civili e militari che giunge alla meta con il fiato con po’ grosso.
È un trionfo. Un trionfo dal sapore selvatico che trova il suo culmine quando, all’incedere ritmico delle croci coperte di fiori e di foglie, il Corso cittadino, illuminato dal mare che luccica da lontano, si trasforma in un bosco che cammina fendendo la folla. Ed è un trionfo ancora più grande quando, al suono delle campane a martello che spaventano gli uccelli torregiani, il Risorto – giunto al centro della piazza municipale – torna indietro per benedire la Città, la campagna ed il mare, prima di riprendere il suo percorso che lo ricondurrà alla Chiesa dalla quale era uscito e che ora, tra tanta gloria, sembra troppo piccola per contenerlo di nuovo.
Al tramonto, quando ormai tutto è compiuto e placato, io consapevolmente lascio che la folla, sballottandomi qua e là, mi allontani dai miei amici e torno a casa percorrendo viale Bruschi Falgari. Proprio come la Decima Croce, la Solitaria che, dopo aver partecipato a suo modo alla grande festa tarquiniese, sparisce silenziosamente nel nulla. All’insaputa di tutti.