di Stefano Tienforti
Probabilmente non sono la persona più adatta a scrivere questo articolo: ero un bambino quando Roberto Meraviglia viveva la sua parentesi politica più luminosa, ero poco meno di un ragazzo quando attraversò quella più buia e subito successiva. Quando ci siamo conosciuti, insomma, dalla politica diretta era già uscito: ma la passione per viverla comunque, a modo suo, non gli si è sfilata di dosso sino all’ultimo giorno.
Farne una valutazione dei meriti, delle scelte e degli errori, perciò, non mi compete, e non vorrei comunque nemmeno pensarci oggi, ad una manciata di minuti dal funerale. Quello che mi va di ricordare, perciò, di lui, è quello che ho vissuto, consapevole che Roberto è stato e resterà un personaggio molto amato, ma anche complesso ed in qualche modo divisivo. E non nel senso che fosse lui a dividere – anche perché è tra i politici che ho conosciuto uno di quelli che più di tutti ho sempre visto alla ricerca del confronto, del parlarsi, del rispetto, e in molti mi dicono fosse così anche svestito l’ambito pubblico –, ma perché a farlo, in termine di opinioni, è stata una parte della sua storia.
Ecco: proprio questa sua capacità di vivere la politica come campo di opinioni e posizioni ma non di scontro, come confronto tra ideologie, partiti o semplicemente modi di amministrare differenti – e non come una guerra personale – sintetizza bene lui e, forse, la generazione di politici tarquiniesi di cui è stato il più celebre e vivace rappresentante. Questo è, oggi, il primo esempio che a mio avviso da lui si deve cogliere come eredità, in una realtà cittadina, nazionale e sovranazionale divenuta più un duello tra personaggi e tifoserie che confronto di idee.
L’altro aspetto che, forse più dell’altro, ho avuto modo di scoprire di Roberto è la sua capacità di dialogare con chiunque, che fosse in aula al senato, al consiglio comunale o in strada e al Bar Diana. Senza differenze o pregiudizi, Roberto Meraviglia c’era, c’è sempre stato: da consigliere comunale, da sindaco, da senatore, da cittadino fuori dall’agone politico ufficiale ma – per indole, forse natura, sicuramente per passione – sino all’ultimo con la testa e l’animo indaffarati a ragionare di politica: in fondo, questa sua disponibilità, questa sua propensione all’aiutare o al rassicurare – probabilmente spesso non sapendo nemmeno lui se davvero avesse modo di farlo – era diventata il suo mantra, il suo motto identificativo. “Ce penso io” è la sua frase che quasi era divenuta un soprannome: a volte usata in tono denigratorio o apertamente critico, ma di certo simbolica di un personaggio che – negli anni in cui ho avuto modo di conoscerlo e sino all’ultimo incontro, circa dieci giorni fa – mai una volta ha mancato di chiedermi come stessi io e come stessero le persone a me care.
Purtroppo – e lo dico da persona che a quella figura si era affezionato – quel giorno mi ha illuso: l’avevo visto meglio, seduto su una sedia del Bar Danilo, e dopo le brutte notizie che giungevano sulla sua salute, mi aveva rassicurato, sia a parole che con il sorriso e lo spirito. Per questo, la notizia di sabato sera ha finito per essere brutale.
Qualsiasi sia l’opinione sul personaggio, qualunque sia il legame d’affetto che per lui si provava, è certo che con lui si perde un pezzo di storia di questa città. Quel che resta, oltre ai ricordi ed alle riflessioni, sono sua moglie, che abbraccio con affetto, dei figli che, anche per il suo esempio, sono persone stimate e di grande serietà ed in generale una bella famiglia alla quale voglio arrivino le condoglianze della redazione de lextra.news.