Acculturati: notarella più o meno filologica

Negli ultimi tempi in scritti (mi dicono anche in discorsi) più o meno polemici, a Tarquinia, sembra ricorrere insistentemente la parola: “acculturati”. Qui non ho alcuna intenzione, naturalmente, di parlare delle motivazioni, delle angosce, delle passioni o delle spinte socio-economiche che generano quest’uso. Vorrei solo capire perché questo vocabolo viene usato con il significato nel quale viene usato nella nostra antica città.
Se guardiamo un buon vocabolario italiano, ad esempio il Devoto-Oli nell’edizione del 1975, troviamo solo i vocaboli “acculturazione” e “acculturamento” con questa spiegazione: “processo mediante il quale un popolo o una tribù assume, in seguito a migrazione, conquista o contatti, la cultura di un altro popolo, o parte sostanziale di essa”. Comunque acculturato, participio passato del verbo acculturare, dovrebbe indicare qualcosa di abbastanza negativo, ossia la perdita della propria cultura, per acquistarne, di solito male, un’altra. In questo senso dovrebbe essere acculturato chi oggi ama solo la cultura statunitense, le canzoni statunitensi, i film statunitensi, l’inglese parlato negli USA, e in realtà parla e capisce, si fa pere dire, soltanto l’taliano. Ma poi, tramite la televisione, “acculturato” ha stranamente acquistato il senso di “colto”, così oggi, per molti, chi è colto è “acculturato”, e sempre con una sfumatura negativa, perché la cultura sarebbe inutile: secondo alcuni, la cultura non porta soldi.
Andiamo, adesso, nella biblioteca comunale Dante Alighieri e apriamo un vocabolario più recente, il De Mauro del 1999, dove troviamo anche il verbo “acculturare”, da cui il participio passato “acculturato”. Qui “acculturazione” ha due significati. Nel primo, “interazione e integrazione delle culture di popolazioni e gruppi sociali differenti, e naturalmente il senso principale dell’inglese acculturation è proprio questo (si può vedere il Webster sul web).
Il secondo significato è “acquisizione di un grado di cultura più elevato, anche scherzoso e dispregiativo”, e anche qui l’influenza statunitense è evidente, come è evidente l’acculturazione nel vecchio senso italiano, anche perché in qualche film o telefilm di quella nazione si può vedere un certo sfoggio di “non cultura”, o “incultura”, che si riflette qui da noi, perfino nell’antica e colta Tarquinia. E’ diventato un topos cinematografico il rude detective o cowboy che trova ridicolo chi usa parole difficili, almeno per lui. In inglese c’è enculturation, che indica l’adeguamento di una persona alla cultura dell’ambiente in cui vive.
Tempo fa, sempre dalla televisione, ho sentito un’intervista con una persona che, dovendo passare qualche tempo in prigione, diceva di essersi messo a studiare e di essere diventato “inculturato”: parola un po’ brutta, ma che dimostrava come colui che parlava, raggiunto un certo grado di cultura, si rendesse conto che “acculturato”, anche oggi e malgrado ogni esterofilia, non andava troppo bene: chi pensa che applicarsi e studiare seriamente porti a qualcosa d’utile e importante, come la cultura, difficilmente direbbe d’essersi acculturato. Però “inculturato” viene usato con diversi significati, ad esempio per dire che il Cristianesimo è entrato nella cultura africana, divenendone parte. E allora? Che fare? (espressione, quest’ultima, già usata nel 1901-1902). Si potrebbe, forse, rinunciare a un ministero del welfare (alla definizione, non alla sostanza) o a una Rai educational (idem), comprendere che la cultura è l’elemento essenziale anche per l’economia di un paese, e semplicemente tornare a parlare italiano?