di Francesco Rotatori
Il 12 marzo Città di Castello ha festeggiato il centenario della nascita del suo massimo cittadino, l’artista contemporaneo Alberto Burri, scomparso a Nizza nel febbraio del 1995. A ricordare la sua importanza è la Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri voluta dall’artista stesso nel 1978 e che a oggi conta più di 130 opere.
Ma questa festa si celebra in tutta Italia, anzi persino fuori la penisola: il 9 ottobre 2015 il Solomon Guggenheim Museum di New York ospiterà la più ampia retrospettiva americana su Burri, curata da Emily Braun. Una grande conquista se si pensa a con quanta diffidenza gli Americani abbiano sempre guardato ai suoi Sacchi, costantemente criticati e ritenuti una copia delle appropriazioni dal reale di Rauschenberg, che sappiamo aver incontrato Alberto e il suo operato nel 1953. Di fatto Rauschenberg stesso ha sempre negato il rapporto, seppur evidente, con la ricerca artistica del suo parallelo.
Per quanto ai più possa sembrare colossale, l’iter di Burri si innesta su un binario culturale nostrano classico: ammirò e studiò con attenzione i rapporti cromatici, le geometrie delle composizioni e l’attenta funzionalità di Piero della Francesca, di cui riprese numerosi schemi anche nei suoi Legni, guardò con attenzione capillare le indagini anatomiche e strutturali di Luca Signorelli per trarne fuori un linguaggio forbito, dei ricordi sommessi che riprendono a parlare di un prima antecedente alla creazione primigenia dell’opera.
Il Museo Riso di Palermo, inoltre, sta organizzando una mostra dedicata al Grande Cretto o Cretto bianco, la magnifica installazione che venne creata nella città vecchia di Ghibellina tra il 1984 e il 1989, in memoria della sua completa distruzione ad opera di una scisma nel 1968. E’ un’ennesima riflessione sui ricordi, che stavolta gridano dal dolore e dalla paura, come se il pigmento bianco che l’artista ha scelto di far calare come un sudario sul paesaggio demolito non facesse altro che farne rivivere gli orrori congelati nel terreno dei dieci ettari che occupa.
Dopotutto egli si era dedicato a queste sperimentazioni materiali già quando negli anni ’50 aveva attraversato le fasi dei Neri, dei Catrami, dei Gobbi, delle Muffe e infine dei Sacchi. Nel 1956 aveva poi abbandonato la tela di iuta e scelto la plastica, che fosse rossa, nera o cellophane trasparente, materiale che aveva preso ad aggredire violentemente col fuoco, che nelle sue mani si era sostituito al più classico pennello del pittore accademico. Questa fiamma aveva svelato la materia al di là di essa, uno strato interno e profondo al di sotto dell’epidermide che la ricopre.
Ai Cretti si era poi dedicato a partire dal 1969, quando creava superfici di creta o caolino impastati allo stato liquido col vinavil. Le spaccature e le fessure che inevitabilmente si andavano aprendo sui supporti su cui era stesa la materia pittorica sono anche le fessure del nostro tempo e del nostro Io, quelle dei rimorsi che ci invadono l’animo e più vengono soffocati più finiscono per spingere e ribellarsi. Sono le nostre ferite, quelle dell’anima, le nostre delusioni, i nostri rimpianti, le nostre afflizioni che bucano la pelle ideale e dimostrano l’inevitabile fragilità dell’esistenza.